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Carlo Carena detto “il Carlaccio”

Scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti
Qualche anno fa era sorta nella Gervasutti una iniziativa atta a tracciare un percorso storico della Scuola in occasione dei 70 anni dalla sua fondazione avvenuta nel 1948. Vicende estranee al mondo della scalata ci hanno distratti da questo interessante proposito e l’anniversario è ormai passato.
La “Gerva” non ha monopolizzato tutto l’alpinismo in ambito torinese dei primi 40 anni del dopoguerra; citerò ad esempio tre nomi di fuoriclasse che nulla hanno avuto a che fare con la scuola: Andrea Mellano, Paolo Armando, Marco Bernardi. Direi però che questi sono quasi delle eccezioni.
A me piace raccontare personaggi ed avventure alpinistiche ed in queste mie ricerche nel passato osservo che sempre compare un passaggio nella scuola Gervasutti, così poco a poco viene anche fuori un po’ di storia della nostra scuola.
Ora voglio raccontare un personaggio particolare il cui alpinismo è nato nella scuola Gervasutti: Carlo Carena detto “L’ Carlaciu”. Seguiranno poi un po’ di vicende di altri due personaggi importanti per la “Gerva”. Il fondatore e suo nipote: Giuseppe Dionisi e Franco Ribetti.

Ugo Manera              

1 Carena e Manera sul Campanile Basso                               



Carlo Carena detto “il Carlaccio”

Carlo Carena è stato un personaggio molto particolare del mondo alpinistico torinese a cavallo degli anni ’60 e ‘70. Amico e compagno di cordata, abbiamo effettuato insieme molte scalate e gite sci alpinistiche. Più vecchio di me di 17 anni, era un tipo esuberante in ogni senso, piuttosto appariscente e rumoroso sfoggiava un linguaggio che, dopo aver riflettuto e consultato dizionari vari, definirei: “scurrile boccaccesco” farcito di temi sessuali e fecali. Per il suo irrefrenabile linguaggio, nel nostro ambiente venne appellato con il soprannome di: Il Carlaccio, o meglio “L’ Carlaciu”, preferendo egli stesso esprimersi prevalentemente in dialetto. Il suo linguaggio, pur così “spinto”, non risultava però volgare e di conseguenza fastidioso ma, condito da una strana eleganza, era soprattutto divertente e portava irresistibilmente alla risata.

Carena al bivacco Jacchia. Percorso cresta Tronchey Grandes Jorasses 1971
Carlo Carena ha avuto una vita movimentata ed avventurosa che egli amava raccontare ed i suoi racconti ti rimanevano impressi. A distanza di molti anni io del Carlaccio mi ricordo quasi tutto: le sue filastrocche, le sue battute, le sue avventure. Ho fatto ridere generazioni di alpinisti raccontando di lui. Varie volte mi è venuta voglia di scrivere tutto ciò ma mi sono sempre trattenuto, frenato dal linguaggio che avrei dovuto usare e che mi appariva quasi impubblicabile.
Recentemente però ho letto il divertente libro: Per Sole Donne, della brava e simpaticissima attrice Veronica Pivetti e mi sono convinto che si può pubblicare tutto, anche la storia del Carlaccio. Solitamente lui si esprimeva in torinese, che è il dialetto che anch’io uso volentieri, ma non sono capace a scriverlo, chiedo perciò venia per le imprecisioni del mio linguaggio.

Il 25 aprile 1958 mi trovavo a Cogne con un gruppo di soci GEAT (la sottosezione del CAI Torino con la quale ho iniziato la mia carriera alpinistica). Stava finendo la stagione sci alpinistica ed avevamo in programma una gita piuttosto impegnativa: la Tersiva. Era il primo anno che mettevo gli sci ai piedi e la mia tecnica di discesa era molto approssimativa ma in salita andavo a razzo, spinto da un entusiasmo sconfinato. Per la lunga gita partimmo in quattro tra i quali Lionello Leonessa che in quel momento era l’alpinista più rappresentativo della GEAT. Leonessa era una persona estremamente piacevole; gentile e pacato nell’esprimersi ed aveva un curriculum alpinistico notevole. Era istruttore della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti e, nell’attività di scalatore, era un ricercatore appassionato, tracciò numerose nuove vie che spesso raccontava con prosa avvincente sul Bollettino GEAT. La più importante delle sue vie è la storica “Leonessa Tron” al Becco di Valsoera: la prima sul versante Ovest di quella magnifica montagna. Leonessa cadde nel 1959 sulla Sud del Castore.

Carena Nord Ag. Chardonet
Era la mia prima stagione alpinistica e sapevo poco o nulla dell’alpinismo torinese e dei suoi protagonisti, sapevo che esisteva una scuola di alpinismo ma poco più, ero però molto curioso e durante la gita non persi l’occasione di sommergere Leonessa di domande. Egli ci raccontò che alla scuola era capitato un personaggio molto particolare dal nome di Carlo Carena. Non più giovane (aveva allora 36 anni), era un misto tra rumoroso, espansivo ed ingombrante e, ciò che aveva colpito particolarmente Leonessa, misurato sempre nelle espressioni, era il linguaggio del Carena: estremamente colorito e disinvolto. Fu la prima volta che sentii nominare Carlo Carena.

Negli anni a seguire appresi sempre di più su Carlo Carena, anche perché non era certo un personaggio che passava inosservato. Seppi che per il suo linguaggio ed il suo modo di esprimersi veniva appellato con il soprannome di “Carlaciu” e che, durante il periodo passato alla “Gerva”, aveva salito, come secondo di cordata, diverse pareti nord e canali con Gianni Miglio, istruttore della scuola ed amante delle vie glaciali.
Lo incontrai personalmente, mi pare di ricordare, in ambito GEAT, aveva stretto amicizia con alcuni soci della Sottosezione e, al giovedì sera, cominciò a frequentare la sede CAI Torino di via Barbaroux n° 1. Carlo aveva una voce tonante e in Sede si fermava solitamente nell’ingresso perché nella sala grande si sarebbe sentito solo lui. Non era alto ma massiccio, aveva una vigoria eccezionale, dovevi fare attenzione alle strette di mano, involontariamente rischiava di stritolarti la mano.

Carena su terreno misto
Mi risultò subito simpatico, Trovai il suo linguaggio senza freni divertente e, nella sua scurrilità boccaccesca non sgradevole per volgarità. Egli amava raccontare di sé, delle sue vicende di vita, delle sue avventure. Aveva un suo inno personale che ricordo ancora bene e sciorinava una infinità di battute, spesso in rima, ascoltando le quali ben pochi riuscivano ad esimersi dal ridere. Il soprannome di Carlaciu non lo infastidiva affatto, anzi sembrava farsene vanto.

Negli anni ’60 ed inizio anni ’70 effettuai molte scalate col Carlaciu e nelle numerosissime ore trascorse insieme, oltre che ripetermi infinite volte le sue rime e battute, mi raccontò molte vicende della sua vita e, cosa che stupisce anche me stesso, quasi tutti quei racconti me li ricordo ancora, e se li faccio scorrere nella mente mi sembra di risentire la voce tonante del rumoroso amico.

Carena sulla Pioda di Siora
Comincio a raccontare di lui con il suo avvicinamento al mondo dell’alpinismo. Egli amava la fatica e, usando una sua espressione, ogni attività che “faceva sudare”; praticava il ciclismo privilegiando le salite perché in salita si suda di più. Aveva una casa di famiglia a Polpresa, frazione di Viu (Lanzo) e di lì partiva per lunghe e faticose camminate durante le quali spesso smarriva il sentiero perché totalmente privo di senso dell’orientamento. Un giorno qualcuno lo portò a fare una facile scalata e scoprì che anche a scalare montagne si suda, decise perciò che avrebbe praticato l’alpinismo. Si iscrisse alla scuola di alpinismo Giusto Gervasutti e il primo anno di corso fu per lui di grande soddisfazione, dotato di forza eccezionale e privo di ogni sorta di paura, salendo da “secondo” (è la regola del primo corso), si comportò molto bene. Al termine risultò il migliore del corso e ricevette in premio un casco da scalata (erano i primi che si vedevano da noi).

Carlo Carena e Ugo Manera in vetta al Crozon di Brenta
Un altro fattore contribuì a rendere ottima quella stagione per Carlo: venne invitato nella cordata di Gianni Miglio per salite di stampo glaciale. Due sue qualità contribuirono a questo passo: una era indubbiamente la sua forza e resistenza; l’altra era di grande rarità in quegli anni: mentre si collocava tra i privilegiati chi possedeva una motocicletta o una Cinquecento, Carlo di auto ne aveva ben tre ed era solito praticare (cosa non gradita da tutti) una guida piuttosto sportiva. Egli era titolare di una fiorente azienda di tessitura metallica per laminati plastici fondata dal padre ed aveva ampie possibilità finanziarie. Con lui il problema dei viaggi verso le montagne, anche lontane, non esisteva.

Al secondo corso le cose cambiarono; agli allievi era richiesto di scalare da “primo” e per tale prestazione Carlo non era proprio tagliato. Messo davanti egli non riusciva mai a capire ove orientarsi per salire. Sconsolato, diceva:
 <<P’r mi le pere a sun tùte istese (per me le pietre sono tutte uguali)>>
Nel dibattito di fine corso tra istruttori, per la promozione degli allievi, qualcheduno disse:
<< Carena non possiamo promuoverlo, se va da “primo” sale come un sacco di patate>>.
Qualche altro rincarò la dose:
<<Pi che ‘n sac ‘d patate a smia ‘n sac ‘d merda>>.
E venne bocciato.

Carlo Carena sulla via Allain al Pic Sens Nom 1
I particolari di quel dibattito arrivarono a Carlo, egli si convinse che l’ultima affermazione fosse dovuta ai fratelli Fornelli e ciò diede origine al futuro motivo conduttore del suo alpinismo: salire la cresta Sud dell’Aiguille Noire de Peuterey. Lino Fornelli, per motivi vari, non era mai riuscito a compiere quella salita e Carlo affermò a tutti:
<<Se sono un sacco di merda vi farò vedere che io salirò la Sud della Noire>>.
Per anni inseguì quella salita e tale argomento diventò motivo infinito di battute e sfottò.
Incontrandoci alla GEAT fu inevitabile combinare qualche salita insieme. Io ero costantemente alla ricerca di soci disposti ad assecondare i miei progetti, Carlo era disponibile a seguirmi ovunque ed inoltre con lui non c’erano problemi di spostamento verso qualsiasi luogo di montagna si fosse scelto. La nostra prima scalata insieme è del 5 luglio 1964: il Pic de Coup de Sabre per la via Franco nel Massif des Ecrins. Eravamo due cordate ma il 50% della spedizione rinunciò subito per il tempo molto minaccioso; Carlo, per nulla spaventato, mi seguì e giungemmo in vetta nell’infuriare del temporale, tra il lampeggiar dei fulmini.

Carlo in cresta nel Bianco
In quello stesso anno effettuai altre sei salite con il Carlaciu: dalla Rocca Castello alle Petites Jorasses al Campanile Basso nelle Dolomiti. Capii molte cose di lui: come secondo di cordata era affidabile se non gli lasciavi molta libertà di azione, giudicava il valore del primo di cordata da come questi era in grado di tenergli le corde tese (come quelle di un violino) mentre egli saliva; non gradiva le traversate orizzontali perché in queste non poteva avere davanti la corda ben tesa.

Anni dopo effettuò una rocambolesca salita al Becco di Valsoera per la difficile via Cavalieri-Mellano-Perego con Silvio Vittoni: in seguito Carlo si lamentò del suo primo perché non sapeva tenere le corde abbastanza tese per il secondo. Come poteva Silvio, piccolo e leggero com’è, sostenere il non indifferente peso del Carlaccio, come da questi preteso?
Come ho già accennato in precedenza, Carlo amava raccontare le vicende della sua avventurosa vita soffermandosi sui fatti più movimentati o divertenti. In quel 1964, tra viaggi e scalate, abbiamo trascorso molte ore insieme, ore scandite spesso dai suoi racconti che non erano mai banali e sono rimasti fissati nella mia memoria. Prima di giungere al suo alpinismo voglio raccontare un po’ delle sue “Vicende Vissute”. La sua fu una vita indubbiamente avventurosa, potrebbe essere tema interessante per uno sceneggiatore che volesse ricavarne un film.

Chardonet 1
Carlo era ragioniere, diploma ottenuto passando attraverso 6 istituti, espulso da almeno cinque: non era uno studente disciplinato! Ricordo un caso che mi raccontò; successe mi pare al San Giuseppe di Rivoli. Dopo averne combinata una grossa, credo fare a botte con qualcuno, venne convocato il padre e, nell’attesa, fu isolato in un’aula deserta; lo accompagnò verso la “reclusione” un professore. Come il professore voltò le spalle per uscire Carlo gli diede una pedata nel sedere ed il poveretto attraversò la soglia rotolando ed urlando per lo spavento. Chiuso a chiave in attesa del padre, il nostro eroe diede anche fuoco ad un banco. Naturalmente fu espulso ed il padre pagò i danni.

Est del Capucin
Il padre però insistette nel volerlo almeno diplomato in quanto vedeva il lui il continuatore della sua attività di imprenditore e Carlo, malgrado tutto, riuscì infine a conseguire il diploma.
Il padre era stato bersagliere ed era impegnatissimo nelle organizzazioni dei reduci di quell’arma, era inoltre in stretti rapporti con un politico che ebbe una rilevante notorietà: il democristiano Carlo Donat Cattin. Grazie ai successi come imprenditore, ed anche all’appoggio ricevuto dal politico amico, ottenne una importante onorificenza (forse Commendatore).

Grandes Jorasses cresta e Tronchey
A questo punto faccio un balzo in avanti per descrivere come Carlo ci raccontò dell’onorificenza del Padre. Stavamo salendo verso il rifugio Ferreri alla Gura (testata della Val Grande di Lanzo) per tentare qualche cosa sulla Parete di Mezzenile, eravamo in quattro, oltre a me e Carena vi era Alberto Re ed un quarto di cui non mi ricordo. Carlo, che non stava mai zitto, cominciò a raccontarci, con espressioni fiorite, dell’onorificenza del padre. Ad un certo punto del racconto usci con questa frase:
 << …… con la commenda ottenuta da mio padre mia madre acquisì il diritto di essere chiamata “Donna”, denominazione necessaria perché, sapete, a mia mamma son cresciuti un po’ di baffi ed il titolo di donna era utile per evitare confusioni>>.
Alberto, che non conosceva ancora bene il Carlaccio, e non allenato alle sue battute, scoppiò in una risata incontenibile, perse l’equilibrio e cadde dal sentiero finendo in un intricato groviglio di cespugli, dovemmo aiutarlo a venirne fuori.

Quando stava approssimandosi l’età del servizio militare Carlo anticipò la chiamata andando volontario nei bersaglieri, l’arma orgoglio del genitore. Il padre, felice, gli regalò 100 lire da spendere come voleva. Egli investì la bella somma a casino (“Flamba” in gergo torinese). Noleggiò una signorina per una intiera notte e mi raccontò:
<<….verso il mattino, dopo 5 prestazioni, pensai: cun sent lire mi ciulu fina la Regi’a dl Belgio…..(con cento lire io scopo persino la regina del Belgio) e riuscii a fare anche la sesta>>.

In vetta all'Aiguille Sialouse negli Ecrins Carena il primo a sinistra
Era tempo di guerra e Carlo, dopo il periodo di addestramento, venne inviato al fronte in meridione (mi pare in Puglia). Lì però per l’Asse le cose stavano precipitando, Carlo si ritrovò subito prigioniero degli Alleati e venne confinato in un campo di prigionia. Con lui vi era anche: <<Il mio amico Primo>> come lo ho sempre sentito definire da Carlo. Era costui un altro forzuto sempre pronto a menare le mani. Carlo mi raccontò che Primo era più vigoroso di lui ma meno scaltro nel combattimento a mani nude per cui l’altro gli riconosceva la leader chip della copia. Il campo di prigionia era autogestito dagli stessi prigionieri ed a capo della gestione vi era un colosso violento proveniente dall’Europa dell’Est. Il mangiare per i detenuti era scarso così Carlo e Primo, per garantirsi porzioni più abbondanti, decisero di appropriarsi della gestione interna del campo. Caricarono di botte il tipo dell’Est e si appropriarono dell’incarico.

Pic de Coup de Sabre e Pic Sens Nom a destra a fil di cielo lavia Allain
Intanto giunse l’Armistizio dell’8 settembre del 1943 e quel che rimaneva dell’esercito italiano passò da nemico a collaboratore degli Alleati. La nuova situazione non piaceva a Carlo che decise di scapparsene via, di attraversare le linee e ritornarsene in Piemonte a Polpresa:
<< Li almeno, a casa di mio padre, mangio bistecche e pastasciutta fin che ne voglio >>. Mi disse.
Si appropriò di una rivoltella e relative munizioni e, con il suo amico Primo, una notte lasciarono la loro unità e si avviarono verso nord.
Arrivati alla linea del fronte cercarono di transitarvi di notte ma vennero intercettati da sentinelle tedesche che intimarono loro l’alt. Primo era intenzionato a sparare ma Carlo lo fermò. Si liberarono delle armi ed avanzarono verso i tedeschi a mani alzate.

Pic Sens Nom e Pelvoux
Vennero condotti al comando tedesco ove Carlo si prodigò a spiegare, cercando di essere convincente, che loro due erano sfuggiti agli Alleati perché non disposti a collaborare ed erano pronti a fare dichiarazioni pubbliche in tal senso. Convinti di essere stati creduti, vennero rinchiusi sotto sorveglianza. Passò qualche tempo, furono ancora interrogati e qualche giorno dopo vennero fatti salire su un carro ferroviario già colmo di persone. Era un carro merci mal ridotto e le persone che vi erano stipate apparivano dei disperati ridotti male. Qualche dubbio sorse immediatamente nei nostri, non sembrava quello un treno diretto verso la Lombardia ed il Piemonte. A Firenze vi fu una lunga sosta in un binario morto, attraverso le fessure delle pareti dello sconquassato vagone Carlo scorse un ferroviere in servizio, riuscì ad attirare la sua attenzione e gli chiese se il treno era diretto verso Torino. Il ferroviere rispose:
<<Poveri ragazzi! Questo treno è diretto al Brennero, non si ferma più fin oltre il confine.>>

Pierino Danusso Carlo Carena Antonio Balmamion Torri del Vaiolet
Allora nessuno sapeva dei campi di concentramento tedeschi, ma finire in Germania non era certo un buon segno. Carlo cominciò ad escogitare come andarsene dal treno prima di essere ridotti in malo modo come i rassegnati compagni di viaggio. Il vagone appariva molto mal ridotto, certamente danneggiato da qualche attacco aereo. Il soffitto era stato evidentemente riparato di recente perché alcune tavole erano di legno nuovo. Carlo pensò che le riparazioni di fortuna non fossero state completate con le lamine di acciaio di rinforzo. Attaccati al soffitto vi erano robusti ganci per fissare i carichi. Carlo e Primo decisero di provare a sfondare il soffitto del vagone nei punti ove appariva riparato di recente. Appendendosi ai ganci, a turno, cominciarono a dare grandi pedate contro le tavole di recente applicazione. Dopo numerosi tentativi le tavole cedettero e si creò un buco nel soffitto del vagone. Carlo e Primo si issarono sul tetto, uno solo dei compagni di sventura li seguì, gli altri erano troppo debilitati. Questo era di lingua inglese, probabilmente prigioniero dei tedeschi. Quando il treno rallentò per una curva i tre si buttarono nella scarpata. Lo sfortunato inglese finì su un palo verticale, morì sul colpo impalato, senza emettere lamenti che avrebbero potuto allertare i soldati di scorta sul treno.


Carlo e Primo illesi, rimasero acquattati e nascosti per un po’ poi diedero inizio alla loro lunga fuga verso Torino. Fu un lungo ed avventuroso viaggio, si spostavano prevalentemente di notte e, grazie all’aiuto ricevuto dai contadini nelle cascine e da tanti altri, riuscirono a raggiungere Torino e le loro famiglie.
Primo trovo la famiglia distrutta, i fascisti e tedeschi avevano ucciso dei suoi famigliari; fuggi in montagna e si uni ai partigiani. Fu spietato nella sua vendetta, uccise molti dei fascisti e tedeschi che gli passarono per le mani. Alla fine della guerra, in preda ad allucinazioni e rimorsi, impazzi e venne richiuso in manicomio. Carlo andava spesso a trovarlo e mi raccontò che solo con lui riusciva ad avere qualche momento di calma e lucidità.

Sul Pic Sens Nom
Carlo invece si rifugiò a Polpresa e rimase nascosto per il resto della guerra, mi raccontò:
<<Io mi conoscevo bene, sapevo che se avessi cominciato a sparare non avrei più smesso, perciò rimasi nascosto e non imbracciai più armi>>
Finita la guerra Carena riprese l’attività con il padre. Avevano una casa anche a Chieri ed una sera, proprio a Chieri, andò al cinema con la sorella, lei portava un cappello piuttosto appariscente. Dietro di loro presero posto tre bulletti che cominciarono a fare pesanti battute sul cappello della sorella di Carlo. Egli non disse nulla e non rispose alle provocazioni. All’uscita però si fermò, mandò avanti la sorella ed attese l’uscita dei tre. Quando li vide si avvicinò all’ ultimo e lo chiamò; quando questi si voltò verso di lui Carlo, fedele al suo principio che: la miglior difesa è l’offesa, gli mollò un cazzotto tale che lo spedì svenuto sul marciapiede. Al secondo strappò mezzo orecchio ed il terzo, mi diceva il Carlaccio:
 <<Sta ancora scappando adesso>>.
Il quel momento passava di lì una Jeep americana con una pattuglia della MP (Militar Police). Saltò giù un militare di colore che corse verso Carlo gridando ed agitando le braccia:
<< Tu formidabile boxeur…. Devi tirare di box…..>>
Carena fu lusingato da quell’apprezzamento e decise di provare a tirare di box. Cominciò a frequentare una palestra riscuotendo sostegno e ammirazione della parte femminile dei dipendenti del padre. Presto gli organizzarono un primo incontro, questo il racconto che mi fece:
 << Mi hanno messo contro un “buatas” grand e gros… cun dui turtiglé  l’é finì ko (fantoccio grande e grosso….con due cazzotti è finito ko)>>.
Sorpresi positivamente dal fulmineo successo i conduttori della palestra gli organizzarono un incontro con il campione piemontese della categoria; la sua descrizione dell’incontro:
<< Mi girava attorno continuamente, io tiravo tanti pugni ma non riuscivo a colpirlo, gli dicevo: ti distruggerei a schiaffi e calci, lui rispondeva: non si può, è la “noble art”, ed intanto incassavo pugni da tutte le direzioni. Finii l’incontro in piedi ma mi convinsi che la box non era per me. Potevo avere successo nelle risse ma non nella box. Cosi ebbe fine la mia carriera di boxeur>>.

Sulla Nord dell'Aiguille du Chardonet
Sul lavoro sorsero divergenze con il padre sulla gestione dell’azienda. Durante una vivace discussione nell’ufficio della ditta il padre, spaventato dalla veemenza con la quale si esprimeva Carlo, fece un passo indietro spaventato, inciampò in una sedia e cadde a terra rompendosi una gamba.
Carlo decise che doveva dimostrare di sapersela cavare da solo, abbandonò tutto e partì per l’Argentina. Trovò lavoro in una fabbrica ma presto sorsero problemi. A causa di qualche complimento rivolto ad una ragazza venne a diverbio con un tipo piuttosto irascibile che si dichiarava fidanzato della stessa. Una sera all’uscita dal lavoro si trovò davanti il tale accompagnato da altri tre. Sempre fedele al suo principio che ho già citato, non attese gli sviluppi ma saltò addosso ai potenziali aggressori. Il giorno seguente Carlo si presentò al lavoro regolarmente con qualche ammaccatura ma tre dei suoi antagonisti erano finiti all’ospedale. Da quel momento venne chiamato: “Il Tano (italiano) Bruto”.

Carena lasciò il lavoro in fabbrica e si mise in proprio, si comprò l’attrezzatura e si diede alla produzione di caramelle che vendeva direttamente. Fatti un po’ di soldi decise di ritornare in Italia. Con il viaggio già prenotato, si presentò nell’ufficio del funzionario che doveva preparargli i documenti necessari per lasciare l’Argentina. Il funzionario si rifiutò di consegnare i documenti perché sospettava delle irregolarità. Infuriato dall’atteggiamento del burocrate Carlo ad un tratto balzò sul malcapitato, lo sollevò da terra e lo trascino presso la finestra dicendogli:
<<Se non mi dai i documenti io finisco in prigione ma tu finisci sul marciapiede lì sotto>>
Ebbe immediatamente i documenti ed intraprese il viaggio di ritorno in Italia.
Sanati i contrasti con il genitore si dedicò sempre di più alla conduzione dell’azienda e qualche anno dopo diede inizio alla sua avventura alpinistica.

Sulla Sud del Salbitschijen
Fatta un po’ di storia della sua vita precedente arriviamo al Carlaciu alpinista ed alle origini del suo soprannome. Come ho già accennato egli usava un linguaggio piuttosto spinto e fiorito; sciorinava una infinità di battute e rime che io non ho mai capito se inventate da lui o raccolte in giro. Nello sparare le sue “carlacciate” amava anche un po’ recitare, soprattutto se c’era qualcheduno che, come diceva lui in gergo ciclistico, gli “tirava la volata”. Specialisti nel tirargli la volata erano: Ezio Lavagno, altro socio GEAT, e la signora Bonis, madre della guida di Bardonecchia Roberto Bonis, donna molto intelligente e spiritosa. Colgo subito l’occasione per raccontare un divertente aneddoto.
Ci trovammo un giorno per una gita sciistica in Valle d’Aias in compagnia molto numerosa, dopo un paio d’ore di salita ci fermammo a fare colazione. Carlo era in forma a chiacchierare e la Bonis lo punzecchiò per fargli raccontare qualche sua storia “fiorita”. Ci raccontò della prima volta che era uscito con una sua fidanzata:
<<Lei pa perdù ‘d temp: sent lei dije, fuma n’ scambi, ti t’ lasi tuchè na pupa, mi t’lasu tuchè na bala. (non ho perso tempo: senti, le ho detto, facciamo uno scambio, tu ti lasci toccare una tetta ed io ti lascio toccare una palla)>>.
La Bonis non lasciò cadere la battuta:
<<Povero Carlaciu, con me avresti fatto un magro affare perché le tue palle sono sicuramente più grosse delle mie tette>>
Risate generali ed una fiera manifestazione di protesta: nel gruppo erano capitate due ragazze amiche di Cesare Serrao, appartenenti alla Giovane Montagna, gruppo di ispirazione parrocchiale. Indignate da un simile linguaggio, voltarono gli sci verso valle ed abbandonarono la compagnia rinunciando a completare la gita con individui così sguaiati.
Carlo aveva una sua citazione “aulica” per omaggiare un personaggio o un fatto degno. La citava spesso ed è rimasta nella mia memoria, ogni tanto ne faccio uso anch’io:
<<Fronde di Quercia, Spade Brillanti, Noccioline di Chivasso>>.
Aveva poi eletto a suo “inno ufficiale” una filastrocca che non so se di sua composizione o se ricavata da qualche altra parte:
                                             
                                      
                                                          La merda squacchera

La sulla spiaggia
Je sinc o set ca cagu
Sensa ‘n tuchet ‘d carta
Per pulidese ‘l cul

La merda squacchera
La fa i filaccheri
Manda gli sbricioli
Di qua e di la

Ma prima di morire
Voglio scorreggiare
Per solleticare
‘L pertùs ‘dl cùl.

sulla via Allain al Pic Sens Nom

Se nell’arrampicata non era un virtuoso a sfruttare i piccoli appigli, per ricavare qualche rima, sempre sui soliti temi, era pronto ad afferrare ogni minimo spunto. Imperversava un film buonista: Marcellino Pane e Vino; Carlo ne fece subito una sua rima:
Marcellino
Pane e vino
Cazzaniga
Pane e figa

Allora si frequentava spesso la segreteria del CAI Torino in via Barbaroux. C’ era stata per un po’ di tempo una segretaria molto simpatica e disponibile a scherzi e battute che si chiamava Margherita; Carlo non mancò di dedicarle un “sonetto”:

Margherita Margherita
Lasa pur che mi tlu bita
Che mi tlu bita per dabun
P’r testimoni i mei dui cujun.

Carlo in vetta in atteggiamento da conquistatore

Ma ritorniamo all’alpinismo, ho già detto che quando lo avevi in cordata era meglio non perderlo di vista, a tale proposito racconterò di due casi.
Il 13 marzo del 1966 effettuammo la prima invernale della via Castiglioni Ovest alla Torre Castello. Eravamo in quattro divisi in due cordate: Peppino Castelli con Paolo Rattazzini, io con il Carlaccio; ad un certo punto della via dovetti fermarmi ad attendere che Peppino partisse per trovare posto alla sosta molto esigua, mentre ero fermo in posizione precaria sentii martellare sotto di me.
<<Carlo cosa stai facendo?>>.
Urlai preoccupato.
<<Sto schiodando la sosta>>. Mi rispose.
Gli urlai una valanga di insulti intimandogli di stare fermo e continuare ad assicurarmi. Vedendo che le corde non scorrevano si era convinto che io fossi in sosta e, senza aspettare che ricuperassi le corde aveva cominciato a togliere uno dei due chiodi di sosta.
Un’altra volta, nel dicembre 1968, avevamo in programma l’apertura di una nuova via al Bec di Mea (sarà poi la via dei Cunei). Dovevamo essere in 6: Carena, G.C. Grassi, io, Motti, Re. Al mattino presto andai in auto a prendere Alberto che allora abitava nei pressi di corso Traiano. Proprio in corso Traiano vi era un cadavere disteso sull’asfalto, era stato investito da poco. Re aveva avuto dei problemi nella notte e non poteva venire, io raggiunsi gli altri e proseguimmo per la Val Grande. Lungo la nuova via io ero legato con Carena e Pivano. Quasi in cima dovetti affrontare uno strapiombo impegnativo. Quando tocco al Carlaccio non riusciva a salire, per due volte si fece ricalare alla sosta, dopo un po’ notai che le corde erano lasche:
<<Cosa stai facendo Carlo?>> Urlai.
<<Non riesco a salire su di li, mi slego e passo a sinistra>>.
Incazzato come una belva lo caricai di insulti e gli urlai:
<<Senti! Me non frego della pelle ma oggi di morti ne ho già visto uno e non voglio vedere anche il tuo cadavere. Rilegati e sali>>.
Mi ubbidì e con un po’ di aiuto mi raggiunse. La giornata finì comunque in allegria nella “piola” di Cesarin a Breno.
Carlo era sempre più fissato sulla Sud della Noire ma nessuno di noi era disposto a portarlo su una via così lunga. Il tema era oggetto di infinite sceneggiate, soprattutto negli incontri del giovedì sera al CAI. Ezio Lavagno, mimando i gesti, gli diceva:
<<Tu vai sulla Sud della Noire ed io vado sotto la Quinta Torre con la “mùda ‘d nusera ‘n bras a ciapete al vol” (con il vestito di noce/cassa da morto in braccio a prenderti al volo>>.
Carlo ribatteva:
<<Me ne sbatto le palle, se mi trovo in difficoltà tappezzo tutta la Quinta Torre di biglietti da 10000 lire e vedi che da Courmayeur corrono a prendermi>>
Carlo aveva un vero culto per il denaro, credeva che con esso si potesse risolvere ogni problema. La scena si ripeteva spesso, una sera ebbe un epilogo più movimentato: i due, entrambi piuttosto forzuti, si palleggiavano il povero Ennio Cristiano chiaramente non della loro stazza che, perso l’equilibrio, fini contro il vetro della porta di ingresso decorato con l’aquila del CAI. Il vetro andò in frantumi e Carlo Carena pagò i danni arrecati al glorioso stemma.
Visto che non trovava riscontro tra gli amici decise infine di ricorrere alla guida. Tramite Alberto Marchionni contattò Giorgio Bertone. Giorgio era stato per due anni istruttore della scuola Gervasutti prima di diventare guida alpina ed aveva mantenuto legami di amicizia con Alberto.
Carlo si trovò benissimo con Bertone che non solo gli fece salire la Sud della Noire ma successivamente anche la Est del Capucin per la via Bonatti e la Ratti Vitali sulla Ovest della Noire.

In vetta al Pic Sens Nom negli Ecrins
Un episodio tipico del Carlaccio avvenne in occasione della Sud. Pur avendo a disposizione la migliore guida del momento Carlo non trascurò di portarsi nel portafoglio 500000 lire (vedi sceneggiata della Quinta Torre). Dopo la riuscita salita, al termine della complicata discesa, si accorse di aver perduto il portafoglio. Giorgio gli disse di stare fermo e risalì a cercarlo. Fortuna volle che lo ritrovò e Carlo, fedele al suo codice d’onore, gli contò immediatamente 50000 lire il 10% della somma contenuta nel portafoglio.
Le disavventure dovute al portafoglio erano però destinate a ripetersi. Una volta portai Carlo a fare il Rocciavrè con gli sci da Forno di Coazze. Fu entusiasta di quella gita e siccome per lui le gite era tutte uguali, purché ci fosse tanto da sudare ed una bella discesa, ritornò altre 10 volte a rifarla da solo. L’ultima volta, quando giunse alla macchina dopo la discesa, si accorse di aver perso il portafoglio che era come sempre ben fornito. Immediatamente ritornò sui suoi passi senza avvisare nessuno. Non lo trovò, venne buio ed egli si fermò nelle grange della Balma.

A casa la moglie, non vedendolo rientrare, si rivolse a qualche amico alpinista. Scattò l’allarme ed il soccorso alpino, sotto la guida di Mauro Marucco, si mosse immediatamente alla ricerca del disperso. Lo ritrovarono che dormiva nelle grange.
Carlo ritornò caparbiamente molte volte alla ricerca del portafoglio ma non lo ritrovò più.
Varie volte la mia pazienza andò in fumo durante qualche salita con il Carlaccio. Dopo incazzature, insulti e minacce di non scalare mai più con lui, l’atmosfera ritornava sempre calma e allegra. Ricordo bene una salita durante la quale persi decisamente le staffe.

Sud e Ovest della Noire

Agosto 1970, ero di ritorno in valle d’Aosta dopo aver salito la parete Est del Monte Rosa, il mio compagno di quella salita: Piero Delmastro, non era più disponibile e dovevo perciò trovare qualche altro socio. A Courmayeur trovai un clima di smobilitazione; mentre ero sul Rosa erano caduti Paolo Armando e Andrea Cenerini nel tentativo di aprire una nuova via sulla tetra parete Nord del Greuvetta. Nessuno degli amici lì ancora presenti aveva voglia di scalare in quel momento. L’unico tra quelli che incontrai disposto a scalare era Carlo Carena, era lì con la speranza di trovare un “primo” che lo portasse da qualche parte. Nel Bianco non c’erano buone condizioni causa recenti nevicate, decisi perciò di spostarmi negli Ecrins. Quell’anno ero interessato alle vie di Pierre Allain, scalatore de me sempre apprezzato per la sua concezione tecnica della scalata. Nel mese di luglio avevo salito la sua via sulla parete Sud della Meije, la “Allain 35”, traendone grande soddisfazione. Decisi di tentare, con il Carlaccio, un’altra delle sue vie: la cresta Ovest del Pic Sens Nom. Era una salita poco nota di cui non avevo nessuna notizia se non che vi era, verso la fine, una lunga traversata orizzontale difficile e poco proteggibile. Quel giorno Carlo ne combinò di tutti i colori: arrampicando con poca attenzione su una quinta di roccia instabile le fece crollare rimanendo appeso alle corde, fortunatamente senza danni. Più avanti in un tratto verticale con strapiombi avevo infisso diversi chiodi, Carlo non riuscì a toglierli tutti, dovetti calarmi io per ricuperarli. Giunti al traverso, a dire il vero abbastanza impressionante, mi disse che lui di lì non se la sentiva di passare se non gli piazzavo una corda fissa. Io, che avevo già esaurito tutte le riserve di pazienza, sbottai:
<<Senti Carlo, oggi mi hai rotto abbastanza, ora scendiamo ma ti assicuro che non arrampicheremo mai più insieme>>.
Incazzatissimo piazzai una doppia e mi calai. Mentre scendevo però domandai a me stesso: <<Io debbo rinunciare a una bella salita per colpa di un “cagone”?>> << Certamente no!>>. Mi risposi.
Quando mi raggiunse lasciai appese le corde della doppia e gli dissi:
<<Senti Carlo, io non rinuncio a questa salita per colpa tua, ormai è tardi, bivacchiamo qui e domani, vivo o morto ti porto in cima>>.
Eravamo in un posto molto scomodo, io mi sistemai al meglio, Carlo invece trafficò a lungo, tirò fuori dallo zaino un cuscino gonfiabile, quando l’ebbe gonfiato cercò di sedersi sopra ma gli sfuggi di mano e cadde giù. Si rannicchiò meglio che poté e mi disse sconsolato:
<<Basta io sono troppo vecchio, non verrò più a fare salite così difficili, per sudare andrò di nuovo in bicicletta.>>
Il giorno seguente completammo la salita, incredibilmente Carlo fece il traverso senza tribolare troppo. In vetta io mi slegai e, fatte su le corde, gli dissi:
<<La discesa non è difficile, seguimi e datti da fare che io non ti aspetto>>.
E mi avviai. Ogni tanto mi urlava che non sapeva più dove passare, allora lo aspettavo e lui si lamentava:
<<Non so come fate voi a capire dove occorre passare, le rocce son tutte uguali ed io non so mai da che parte andare>>.
Giunti a valle, sul sentiero pianeggiante che porta ad Ailefroide, io camminavo veloce davanti e ad un tratto me lo vedo spuntare a fianco. Mi disse tutto convinto:
<<Senti Ugo tutte le cose che ho detto sono cazzate, me ne sbatto le palle se c’è da trovare lungo, io continuerò a fare salite difficili>>
Di episodi divertenti con il Carlaccio come protagonista ne ricordo ancora tanti, ma raccontarli tutti diventerebbe troppo lungo. Almeno uno però voglio ancora raccontarlo.
Eravamo nel 1972 o 73, non ricordo più bene, Gian Carlo Grassi, Gian Piero Motti ed io eravamo Accademici del CAI di fresca nomina. Un giovedì sera, dopo il consueto incontro in via Barbaroux, decidemmo di festeggiare il nostro: <<Fronde di Quercia Spade Brillanti Noccioline di Chivasso>>. Puntammo in numerosa e rumorosa compagnia al ristorante/bar del Monte dei Cappuccini.
 Allora il ristorante era gestito da un personaggio molto disponibile e simpatico: Gigi, con il quale eravamo entrati in confidenza. Formammo una tavolata piuttosto allegra. Dopo un po’ di chiacchiere, battute e sfottò vari, iniziammo i brindisi.

Carlo Carena il quarto da sinistra in una gita sciistica
 Anche Gian Carlo, che di solito in quelle situazioni era piuttosto silenzioso, appariva allegro e su di giri. Egli non era abituato a bere però Gian Piero ed io, un po’ da carogne, lo incitavamo ai brindisi riempiendo continuamente il suo bicchiere. Quando ci alzammo era completamente brillo. Carlo lo prese sotto braccio dicendogli:
<<A lan fate Cumendatur, ven cun mì che ‘t portu a ciulè (ti hanno fatto commendatore, vieni con me che ti porto a scopare)>>.
Il povero Gian Carlo, totalmente confuso per il troppo vino bevuto, si lasciò caricare in macchina e, seguiti da altri del gruppo scesero nel vicino Corso Massimo d’Azeglio, da sempre luogo di lavoro delle “signorine della notte”.
Io li avevo abbandonati per tornarmene a casa ma poi mi venne raccontata la scena: Carlo, trascinando Gian Carlo mezzo intontito, andò a contrattare con le “signorine”. Con voce tonante apostrofava:
<<Cara ragazza, il mio amico è stato fatto “Commendatore”, davi farlo scopare bene, pago io profumatamente>>.
La sceneggiata durò poco però, Gian Carlo stava male e la serata si concluse al pronto soccorso delle Molinette ove gli praticarono una iniezione per fargli passare la sbornia involontaria.

Carena e Manera
La mia attività alpinistica era orientata sempre di più verso salite molto impegnative, fuori dalla portata del Carlaccio; avevo inoltre troppi progetti e poco tempo per realizzarli. Scalavamo ancora insieme nelle falesie ma molto meno in alta montagna. Non trovando più primi disponibili si fece accompagnare qualche volta da Gian Carlo Grassi che intanto era diventato guida alpina e, coraggiosamente, affrontò anche salite da primo di cordata come la Leonessa al Becco di Valsoera. Con le tante salite compiute, anche se prevalentemente da secondo di cordata, accumulò il punteggio necessario per l’ammissione all’allora esistente Gruppo Alta Montagna dell’UGET. Fu per lui una bella soddisfazione che lo ripagava, ad anni di distanza, della bocciatura alla scuola Gervasutti.
Nell’ economia internazionale era scoppiato il bum del Venezuela in America del Sud. Si erano scoperti in quel paese enormi giacimenti di petrolio. L’improvvisa ricchezza spingeva l’imprenditoria in espansione ad acquisire tecnologie in Europa. Una delegazione, interessata alla tessitura metallica, visitò la Ditta Carena che in quella tecnica era leader. I venezuelani rimasero ben impressionati tanto che, qualche tempo dopo, fecero un’offerta per l’acquisto ed il trasferimento in Venezuela di tutti i macchinari. Proposero a Carlo, dietro lauto compenso, di andare ad avviare la nuova fabbrica nel paese sud americano.

Carena seduto a destra su una delle tante cime salite
Carlo mi raccontò che in fabbrica erano sorti nuovi problemi: il Fisco si faceva sempre più aggressivo nel pretendere il pagamento di tutte le tasse ed i suoi dipendenti erano determinati ed eleggere un Consiglio di Fabbrica per creare all’interno una rappresentanza sindacale. Il Carlaccio, sempre molto determinato nelle sue decisioni, vendette la ditta ai venezuelani e si trasferì in quel paese. Conosceva la lingua e gli era rimasta un po’ di nostalgia del periodo trascorso in Argentina.
Con il trasferimento in Sud America i nostri rapporti si interruppero. Seppi che molti anni dopo fece ritorno in Italia ma non abbiamo più avuto occasione di incontrarci.
Carlo Carena detto Carlaciu è stato un amico che ricordo sempre volentieri, lo dimostra il fatto che le sue avventure, le battute, i turpiloqui sono rimasti fissati quasi intatti nella mia memoria. Gli sono debitore di qualche incazzatura, ma di infinite ore allegre trascorse insieme.

Ugo Manera
 

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