Mariangelo Cappellozza
Mariangelo e la via dei Polacchi al Mont Maudit
Un giorno, costretto in casa dalle restrizioni dovute alla pandemia del “corona virus”, avevo la televisione accesa ma non vi badavo immerso in altre attività. Ad un tratto una frase colta di sfuggita mi fece alzare gli occhi, il conduttore (o conduttrice) della trasmissione stava intervistando una scrittrice, non mi ricordo più chi fosse, l’intervistata parlava della vita dei suoi antennati (nonni e bisnonni) ed esprimeva il suo rammarico perché, non essendoci l’abitudine a scrivere, non avevano lasciato traccia della loro vita se non attraverso racconti verbali, tramandati sempre più fiochi dai discendenti. Lei avrebbe voluto leggere episodi di quelle vite ma poteva invece solo immaginarle con la fantasia attraverso le poche notizie arrivate fino a lei.
Ha ragione, mi sono detto, quante vite e personaggi interessanti scompaiono senza lasciare una traccia duratura. Riflettendoci bene però forse tutte le vite hanno qualche motivo di interesse che merita di essere raccontato, ma è l’abilità e la sensibilità dello scrittore che riesce a rendere avvincenti anche gli episodi che appartengono a vite semplici e normali
Quando invece il personaggio per: azioni, comportamenti, mentalità, esce in modo evidente dalla normalità allora diventa molto più facile raccontarlo. Il personaggio di cui io intendo raccontare aveva molte cose che lo evidenziavano dalla normalità a cominciare dal nome: Mariangelo Cappellozza. Una qualità emergeva sulle altre: sapeva essere sempre, comunque, divertente.
Nell’attività che ho svolto in montagna ho avuto tanti compagni di cordata, alcuni occasionali (pochi), la maggior parte per periodi abbastanza lunghi. Credo di non essere mai stato molto sentimentale e la scelta iniziale del socio era soprattutto utilitaristica: non praticando alpinismo solitario, il compagno di cordata rappresentava il mezzo più importante che mi avrebbe permesso di conseguire i miei obiettivi. Amicizia, legame affettivo ecc… giungevano poi, dopo le prime salite. Non sarei comunque mai andato a scalare con un socio (o socia) di cordata che non mi fosse risultato simpatico a prima vista.
Alcuni dei compagni con i quali ho condiviso varie salite non ci sono più, ma io li sento sempre come fossero in qualche modo ancora accanto a me. Quando leggo relazioni di vecchie via aperte con loro, quando scorro fotografie di scalate di quei tempi, mi pare di percepire vicina la loro presenza fino ad immaginarmi di sentire e riconoscere ancora il timbro della loro voce. Forse è per questo che mi piace scrivere e raccontare di loro.
Mariangelo piombò nella scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti come un grosso sasso in uno stagno tranquillo. Arrivò armato di una piccola trombetta di ottone che portava sempre con sé e che usava per dare la carica ogni volta che si intavolava qualche discussione un po’ animata. Preferiva essere chiamato Mario perché riteneva che i genitori gli avessero affibbiato un nome troppo lungo e complicato. Egli era un contestatore nato ma un contestatore gentile sempre corretto e mai offensivo. Per lui non esisteva il postulato, ogni regola, direttiva o azione era un teorema che andava dimostrato prima di essere accettato ed applicato. Nella “Gerva” iniziò a mettere in discussione tutto e tutti ma nessuno se la prendeva in modo serio proprio perché era corretto e soprattutto sempre divertente, era sostanzialmente un rompiscatole simpatico. Proveniva dai boy scout dove aveva raggiunto i vertici della gerarchia, era un atleta ed eccelleva in varie discipline, soprattutto in quelle aquatiche. Puntando sulla sua prestanza fisica pensava di impadronirsi senza troppi problemi dell’arte dell’arrampicata; questa convinzione lo portò invece verso qualche delusione. Nelle prime uscite dei corsi della scuola si comportò molto bene e presto si convinse di poter andare da primo di cordata un po’ ovunque.
Una volta, con il corso di perfezionamento, ci trovammo nei Cerces nel Vallon de la Moulette. Su una delle torri poste in questo vallone vi era una via (la Max Gerard) dove la relazione tecnica riportava un tratto di sesto grado. Allora la scala delle difficoltà su roccia era ancora chiusa verso l’alto e raramente erano indicati passaggi di “sesto”; grado che rappresentava il massimo delle difficoltà su roccia. Io ero curioso di “vedere” questo sesto e decisi di andare a salire quella via con il mio allievo. Mariangelo, sentito il mio programma, convinse il suo istruttore, che era Corradino Rabbi, a venire con noi sostenendo che il tratto difficile lo avrebbe salito lui da primo.
Giunti al punto critico della via io superai il “sesto” abbastanza agevolmente, giunto alla sosta feci salire il mio secondo ma poi attesi per vedere come se la sarebbe cavata il baldo giovane che ci seguiva. Mario, arrivato a metà della placca, rimase “inchiodato” senza più riuscire né a salire né a ritornare indietro. Io, senza fare commenti, attesi un po’ e poi gli chiesi se voleva un capo di corda; con voce contrita disse di si, gli buttai la corda e lo aiutai a togliersi dai guai.
Quell’episodio generò in lui una ammirazione sincera nei miei confronti anche se questa, consolidatasi nel tempo, venne sempre manifestata con espressioni scherzose e canzonatorie. Quando ero in vacanza in valle d’Aosta con la famiglia passava spesso a trovarmi per combinare salite; se era presente Claudia, la mia bambina, il suo saluto consisteva nel buttarsi in ginocchio per terra esclamando: Bacio gli scarponi all’Accademico. Ogni volta mia figlia scoppiava a ridere considerando quell’amico di papà un po’ pazzo ma molto simpatico.
Mariangelo divenne un ottimo compagno di cordata ed effettuammo insieme scalate di grande impegno, ogni volta però riusciva a combinare qualcosa di irrazionale ma comunque divertente. Quando effettuammo la prima invernale della via Kelle alla Tète d’Aval nel Briançonnais, al primo bivacco tirò fuori dallo zaino un astrolabio e nella notte stellata cominciò a cercare le stelle decantando versi di Leopardi, tirandosi addosso gli improperi di Claudio San’Unione, poco propenso al romanticismo in quelle circostanze.
Avevamo in programma le prima invernale della parete sud della Becca di Moncorvè nel Gran Paradiso ma non era ancora scattato il fatidico 21 dicembre, così l’ultimo fine settimane dell’autunno decidemmo di andare a vedere le condizioni della nostra parete salendo la via Chiara sulla parete nord del Ciarforon. (Via che oggi non esiste più in quanto il riscaldamento globale ha sciolto il seracco che la caratterizzava e la rendeva bella).
In quei giorni c’era in montagna una temperatura polare, il termometro rimaneva stabilmente sotto ai meno quindici gradi centigradi. Quando giungemmo sotto al seracco ed io mi apprestavo ad affrontare il muro di ghiaccio, Mariangelo pensò bene di suonarmi la carica, estrasse la sua trombetta dalla tasca a la accostò alle labbra. Nessun suono uscì dallo strumento, sostituito dal grido di dolore del nostro amico. L’ottone della trombetta a -20° si era comportato come metallo incandescente lasciando dolorose scottature sulle labbra dell’incauto che aveva avuto la brillante idea. Commento lapidario del solito Claudio: Sei il solito coglione!. L’episodio decretò la fine della trombetta.
Una settimana dopo eravamo nuovamente in loco ad effettuare la prima invernale della parete Sud della Moncorvè: due giorni di scalata con un bivacco per una salita che ci colmò di soddisfazione.
Scalate con Mariangelo ne ho effettuate molte, sia estive che invernali; oltre ad essere sempre spiritoso e divertente era anche disponibile ad assecondarmi in avventure per le quali avrei fatto molto fatica a trovare un compagno. Una volta, a fine maggio, con la montagna ancora innevata, tracciammo una nuova via sulla Torre Rossa del Piantonetto: andata e ritorno in giornata da Torino. Un “culo” mostruoso accettato da Capellozza con qualche mugugno ma sempre allegramente.
Il meglio di sé Mariangelo non lo ha espresso però in montagna, ma nelle vicende che vado a raccontare. Egli aveva una grande passione per l’acqua ed il mare e di conseguenza per tutto ciò a questo elemento è legato. Voleva diventare ingegnere navale e progettare navi all’avanguardia; si iscrisse perciò al corso di ingegneria navale di Genova, superò in modo brillante gli studi e conseguì la laurea.
Prima di immergersi nell’attività professionale bisognava però espletare il servizio militare (allora era obbligatorio). Mariangelo fece la sua scelta: alpino paracadutista. Alpino perché sperava di fare il militare in montagna, paracadutista perché questo corpo era retribuito e lui contava di raggranellare qualche soldo.
La sua domanda venne accolta, ma prima di andare in montagna (a Bolzano) bisognava fare il corso da paracadutista a Pisa, e qui cominciarono i suoi guai.
Mariangelo: indipendente, critico, anticonformista, non poteva integrarsi in un corpo così inquadrato, direi quasi fanatico, colmo di riti come quello dei paracadutisti. Non ebbe nessun problema per la preparazione fisica, come atleta egli eccelleva, ma quando si trattò di simulare il lancio dall’apposita torre non riuscì a trattenersi. Anche questa azione doveva seguire delle prassi consolidate: l’allievo al momento del lancio, ad un cenno del sergente istruttore, doveva urlare a squarcia gola una specie di urlo di guerra caratteristico del corpo.
A quei tempi aveva un grande successo uno sceneggiato televisivo tratto dai romanzi di Emilio Salgari, che raccontava le strabilianti avventure della Tigre della Malesia: Sandokan. Mariangelo, al momento del lancio dalla torre non seppe trattenersi ed invece del grido canonico dei paracadutisti, urlò: Sandokan, come un Tigrotto di Mompracen che si lancia all’arrembaggio. Vi lascio immaginare le reazioni del sergente istruttore.
L’incidente non ostacolò più di tanto la carriera dell’aspirante alpino paracadutista che, superate le difficoltà e l’intolleranza alla mentalità militare, arrivò al giuramento prima della partenza per Bolzano. E qui successe il patatrac.
Prima di raccontare l’episodio voglio sottolineare che Capellozza era cattolico credente, anche se un po’ a modo suo.
Giuramento militare con messa al campo: immaginatevi tutto il battaglione schierato in silenzio ed il vescovo che si appresta ad iniziare la celebrazione. Si alza una voce: quella di Mariangelo, che contesta il vescovo perché sta per impartire la messa in modo coercitivo, senza accertarsi se tutti i militari vogliono assistere alla funzione. Il vescovo sorpreso cercò di dire che non era sua intenzione obbligare nessuno ad assistere alla messa.
Poi l’interruzione venne superata e la cerimonia conclusa. Conseguenze: il giorno dopo tutti gli alpini paracadutisti partirono per Bolzano, Mariangelo Cappellozza partì per Messina nella Fanteria, niente montagna, niente auspicata retribuzione.
A Messina il nostro ne combinò di tutti i colori, probabilmente anche a titolo di vendetta per la cortesia che gli era stata riservata. Se ne fregava delle punizioni ed ogni occasione era buona per rimostranze e proteste tanto che il colonnello, comandante della caserma, quando lo vedeva evitava di incrociarlo.
Mariangelo era un ottimo nuotatore ed aveva una grande confidenza con l’acqua, si mise in testa di effettuare la traversata dello stretto di Messina a nuoto. Un giorno, senza nessun supporto, mise in atto il suo proposito solo che giunto circa a metà dello stretto si trovò circondato da barche con gente che lo redarguiva per la sua imprudenza, mi raccontò: vista tutta quella gente preoccupata per me decisi di farmi “salvare” e mi feci riportare a riva. Qualche giorno dopo ripeté il tentativo ma questa volta si accordò con un pescatore che lo accompagnò con la barca nella traversata.
La notizia della traversata arrivò anche in caserma ed il tenente comandante della compagnia si mise in testa di far ripetere la traversata a Capellozza, questa volta sotto l’egida dell’esercito. La cosa poi non si concretizzo e Mariangelo mi confessò che se avesse intrapreso la traversata sotto i riflettori come militare, a metà dello stretto avrebbe chiesto aiuto e si sarebbe fatto salvare.
Tra le “distrazioni” cercate da Mariangelo per sopravvivere ai noiosi mesi di militare vi furono anche le visite clandestine al locale Club Mediterranee. Egli, da abile nuotatore quale era, si allontanava molto al largo poi approdava sulla spiaggia riservata del Club aggirando ogni forma di controllo. Qui si comportava come ogni ospite compreso approfittare del pasto riservato ai soci ed in un pasto trovò il modo di protestare per la qualità del cibo.
Con il tempo il fuoco sacro dell’alpinismo in Mariangelo si stava attenuando. Forse era un po’ deluso, abituato a primeggiare nelle attività che intraprendeva, nella scalata probabilmente non era riuscito a raggiungere i livelli che avrebbe voluto. In una delle ultime scalate fatte insieme mi fece conoscere un suo amico, più o meno suo coetaneo, di cui mi aveva parlato spesso: Isidoro Meneghin. Mentre quest’ultimo mi sorprese per determinazione ed abilità, costatai che in Mariangelo non c’era più quella spinta che lo aveva mosso nelle tante salite effettuate insieme.
Trovò lavoro nei cantieri navali di Trieste e si trasferì in quella città. Una estate, mentre ero in vacanza con la famiglia in Valle d’Aosta, mi capitò di leggere una breve notizia di un incidente in Slovenia: un subacqueo italiano durante una immersione in apnea effettuata in solitaria, era scomparso, il corpo era stato ritrovato dopo 20 giorni. Si trattava di Mariangelo Cappellozza.
La via dei Polacchi al Mont Maudit
Il Mont Maudit è una montagna bella da ogni parte la si osservi. Il suo versante che più colpisce è però la complessa parete Sud Est con i suoi graniti rossi, i canalini ghiacciati, le sue creste con le cornici di neve create dai venti di caduta. Avendo percorso due volte la cresta Burgener Kuffner avevo avuto occasione di osservare bene la parete ed ovviamente mi era venuta la voglia di salirla. Esisteva ancora, nei primi anni ’70 un bel problema invernale da risolvere: la via aperta nel 1929 dagli aostani Cretier, Binel e Chabod.
Mi accordai con Corradino Rabbi per un tentativo. Come lavoratori avevamo poco tempo a disposizione, bisognava risolvere tutto in un fine settimana attaccandoci magari un giorno di ferie. Salimmo al bivacco della Fourche nel pomeriggio di una splendida giornata invernale, al colle ci godemmo un tramonto spettacolare: il sole, prima di scomparire all’orizzonte, rese di fuoco il Pilier d’Angle, la Brenva e la parete del Maudit. Troppo bello, quella luce era troppo straordinaria per essere normale. Infatti quando ci svegliammo per prepararci alla partenza nevicava abbondantemente. Dovemmo abbandonare il nostro progetto e scendere il canale della Fource infarinati già da piccole slavinette di neve. L’invernale della via venne realizzata un anno dopo da quattro forti guide francesi dal 22 al 24 gennaio 1975.
La parete del Maudit mi aveva però conquistato, volevo tornarci al più presto. Se come invernale la via degli aostani rappresentava un’impresa, per la stagione estiva non mi bastava, volevo qualche cosa di più problematico e poco noto; vi erano sì due vie molto impegnative: quella di Bonatti, Oggioni e Gallieni del 1959 e quella di Bougerol e di Mroz del 1971 ma ambedue erano troppo esposte a pericoli oggettivi per i miei gusti.
Scorrendo in modo maniacale, come era nelle mie abitudini, la guida Vallot, scoprii che vi era una via aperta da scalatori polacchi nel 1963 mai ripetuta, percorreva al centro la grande pera di granito della parte destra della parete, aveva un tratto in comune con la via Kagami del 1929 lungo il crestone di misto che fa seguito alla grande pera, e superava direttamente la torre finale evitata dalla via del’29; tutto il percorso era al riparo da cadute di pietre o di ghiaccio, fattore molto importante per me.
La relazione tecnica dei primi salitori riportava poi delle difficolta di sesto grado, altro incentivo per andare a metterci il naso. Non avevo neanche la necessità di trovare un compagno, era pronto il giovane Mariangelo Cappellozza, ansioso di affrontare qualche scalata di polso sulle cime principali del massiccio del Monte Bianco, a lui ancora sconosciute.
Era il mese di agosto ed eravamo liberi, io dal lavoro, lui dagli studi. Mi raggiunse ad Avise ove ero in vacanza con la famiglia e ci avviammo per la trafila che conoscevo già molto bene: Courmayeur, funivia, Valle Blanche, bivacco della Fourche. Eravamo soli, trascorremmo la serata ammirando il grande ambiente che ci circondava, nuovo per il mio compagno. Non c’era la luce straordinaria e la trasparenza dell’aria che avevo ammirato l’inverno precedente, ma forse una leggera foschia era segno di tempo più stabile.
Lasciammo il bivacco che era ancora notte e raggiungemmo la base della grande pera rocciosa, il punto più basso della parete del Maudit, che stava albeggiando. Il percorso ci apparve subito evidente: fessure e diedri incidevano al centro la struttura rocciosa. Scalammo con continuità su di un granito saldo che ci offrì una arrampicata entusiasmante, ricordo ancora una lunga fessura colma di splendidi cristalli di roccia. Lì, credo e spero, che nessuno andrà mai a danneggiarli. Con Mariangelo era impossibile restare seri, commentava passaggi con iperboli e battute, accompagnate dalla recita di brani di poesie o da battute nei miei confronti, difficili da interpretare se canzonatorie o di ammirazione. Ogni tanto nell’azione piombava nel mutismo improvviso, allora ero io ad intervenire commentando con sarcasmo la sua arte arrampicatoria.
Superammo il tratto di “sesto” senza problemi rilevanti e, una lunghezza dopo l’altra, giungemmo nel pomeriggio alla sommità della pera, all’inizio del tratto comune con la via Kagami. Tratto non difficile ma complicato ove emergono le caratteristiche di questa parete che raccoglie e trattiene tutta la neve di caduta convogliata lì dai venti dell’ovest. Ogni torrione era sormontato da un cappello di neve inconsistente, condizioni che imponevano una scalata molto attenta e lenta. A sera giungemmo sotto la torre terminale ove la via del ’29 devia a destra nei canali che la costeggiano, occorreva bivaccare, eventualità del resto prevista.
Non fu facile sistemare un angolo in piano per un bivacco decente. Quando fummo più o meno sistemati Mariangelo si destreggio in una delle sue imprese tipiche: In precario equilibrio su di una crestina si spogliò completamente fino a restare in mutande poi si infilò una tuta di lana e quindi si rivestì: Sai, mi disse, ho fregato a mio fratello la tuta integrale a pelle e dovevo indossarla per bivaccare.
Il bivacco fu parecchio scomodo e prima dell’alba ci ritrovammo immersi nelle nuvole e cominciò a nevischiare. Ci preparammo alla partenza che ancora era buio ed alla prime luci riprendemmo la scalata sotto al nevischio ed avvolti dalla nebbia. Ancora un paio di lunghezze impegnative poi una breve cresta ci condusse sulla spalla NE del Maudit.
Avevamo portato a termine una gran bella salita ma ci trovavamo immersi nella nebbia fitta senza riferimenti per individuare la giusta via di discesa. Con un po’ di fortuna ed un po’ di senso dell’orientamento riuscimmo a scendere dalla parte giusta poi, nei pressi del Mont Blanc du Tacul trovammo delle antiche tracce e potemmo continuare la discesa senza troppa difficoltà. Mariangelo, che mai riusciva a stare zitto, se ne uscì con un suo commento tipico: Se per diventare Accademico bisogna saper trovare la giusta via in mezzo ad una nebbia simile io non diventerò mai accademico.
Mariangelo è stato un amico straordinariamente simpatico e divertente, in montagna era attento e prudente; nell’acqua invece credeva di potersi concedere ogni cosa e l’eccessiva confidenza gli è stata fatale.
Ugo Manera (IA - CAAI)